Come fare di Spotify una macchina da soldi

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Se tutto dovesse andare come previsto, alla fine di marzo Spotify comincerà a vendere azioni sul New York Stock Exchange. A differenza di quanto accaduto con Facebook, non si tratterà di un’offerta pubblica iniziale. Ciò vuol dire che, da un giorno all’altro, Spotify dichiarerà ufficialmente possibile acquistare quote, senza che ci sia un aumento di capitale. Al momento, Spotify sta crescendo insieme alle proprie perdite, stimabili intorno ai 600 milioni di dollari.

Riguardo una crescita che sia sostenibile e slegata dai diritti d’autore (un problema sempre più fastidioso per la compagnia svedese), si è parlato della possibilità di mettere a pagamento per le prime settimane i nuovi dischi, di vendere nuovi prodotti a marchio Spotify, come casse bluetooth, della possibilità di produrre contenuti inediti video o di distribuire musica di artisti emergenti attraverso un’etichetta discografica di proprietà.

Ma artisti, spammer e case discografiche hanno trovato modi sempre più fantasiosi per sfruttare a proprio favore il servizio di streaming musicale più famoso al mondo.

Un caso famoso è il disco del 2014 dei Vulfpeck, Sleepify. Un album formato da tracce come Z, ZZ e ZZZ. La particolarità? Sono tracce vuote, senza alcun suono. Tuttavia, grazie alla richiesta della band di mettere in loop la playlist nella notte, Sleepify ha accumulato più di 4 milioni di ascolti nei brani più popolari, finché questi sono rimasti online. Ascolti che hanno permesso alla band di regalare ai seguaci un tour completamente gratuito, finanziato solo con gli incassi dello streaming. E di farsi una grandissima pubblicità.

Spotify paga una frazione di centesimo ogni 30 secondi di ascolto, su ogni canzone, che sia lunga 30 secondi o 15 minuti. Il proliferare di tracce strumentali di breve durata (spesso intorno al minuto) in album recenti, potrebbe essere stato ispirato proprio da questo sistema. Alcuni movimenti anti-streaming, come Eternify (nato subito dopo l’uscita di Sleepify con un principio simile), spingono gli artisti a pubblicare un maggior numero di brani di durata inferiore al minuto.

Ogni ascolto, inoltre, contribuisce al numero di unità equivalenti vendute, che contano ai fini del raggiungimento, per esempio, di un disco d’oro. Qual è il modo migliore per fare più ascolti? La risposta di Drake è: pubblicare più tracce. Ovviamente, i guadagni dello streaming per artisti di questo calibro sono solo una minima parte degli incassi totali. Tuttavia, pare sia il motivo dietro le 22 tracce di More Life, oppure dietro l’inclusione del tormentone Hotline Bling nell’edizione pubblicata su Spotify di Views, come traccia bonus. Che tuttavia era uscita già da 10 mesi.

Detto questo, Spotify ha ispirato anche il proliferare di produzioni nate decisamente sotto un altro tenore artistico. Avete mai sentito ad un compleanno una versione registrata di Tanti auguri a te, con tanto di nome del festeggiato nell’incisione? Con ogni probabilità, è sulla piattaforma streaming come traccia dei Chorus Friends. Un’orda di canzoni di 1:33 con la stessa identica base, cantate in lingue diverse per coprire ogni possibile festeggiamento, in ogni parte del pianeta. Tanti auguri conta 150 000 ascolti, cumulativi di tutti i diversi nomi. Nella controparte di lingua inglese, su Spotify come Happy Birthday Library, gli ascolti salgono oltre il muro del milione. Non è difficile immaginare i guadagni derivanti da numeri simili.

Non molto tempo fa, quando molti artisti non erano su Spotify, non era raro trovare cover approssimative dell’intero repertorio, ad esempio, di Michael Bublè eseguite da un certo Michael Bobble. Ma potete ancora ascoltare l’unico successo degli Imagine Demons, una cover di Demons degli Imagine Dragons che ha superato 2 milioni di ascolti. Lo stesso trucco funziona modificando leggermente il titolo di una canzone: Be Humble. di King Stitch ha raggiunto un milione di ascolti sfruttando la fama del brano di cui è cover, HUMBLE. del ben più popolare Kendrick Lamar. Potrebbe esserci lo stesso principio dietro 1989, album di Ryan Adams formato esclusivamente da cover acustiche di 1989, album di Taylor Swift non ancora disponibile su Spotify al momento dell’uscita del disco del rocker canadese.

Bombardare Spotify di tracce è un altro ottimo modo per guadagnare ascolti: lo sa bene Matt Farley, che ha pubblicato più di 18 000 canzoni dozzinali su qualsiasi cosa gli venisse in mente, sfruttando ogni parola chiave potesse essere inserita nella tab di ricerca dell’app. Sono, più o meno, canzoni vere e proprie in questo caso (è anche possibile chiedere a Farley di comporre una canzone dedicata a qualcuno o a qualcosa in particolare). Da un estremo all’altro, Sir Juan Mutant ha pubblicato più di 65 album in streaming. Composti perlopiù dalla stessa traccia, sperando che qualcuno cliccasse, preso dalla curiosità, ad esempio sulla sua Can’t pay you, 3 minuti di feedback e note a caso sulla sua chitarra elettrica. Che poi sono le stesse di Bubble Gum, oppure di Did you distort their minds?.

In tutto questo, la compagnia svedese sembra essere solo una vittima. Ma è proprio così? A quanto pare, non proprio. Quanto potere hanno, ad esempio, le playlist più famose, spesso compilate dallo stesso servizio di streaming? Immenso.

La playlist RapCaviar, citata come la più influente playlist rap, che conta più di 8 milioni di seguaci e che viene descritta come “in grado di elevare artisti da mixtape a star planetarie”, sembrerebbe essere pilotata dalle major. Meno del 13% degli artisti inclusi nel corso del 2017 nella playlist non sono affiliati con alcuna major. Ancora, il 43% dei brani di RapCaviar sono inclusi il giorno stesso della loro pubblicazione su Spotify, contro il 13% della playlist Top Hits, (giustamente) formata dalle più grandi produzioni planetarie (dati Chartmetric). Come è possibile scovare i “migliori artisti da mixtape” in un giorno solo dalla loro uscita? Come è possibile che quasi 9 artisti su 10 meritevoli di questa pubblicità siano sotto contratto con una major?

Notizia non proprio recente è invece il fatto che numerose tracce strumentali delle playlist prodotte da Spotify per conciliare il sonno, oppure per aumentare la produttività, sono in realtà scritte appositamente da compositori fantasma per Spotify, oppure, ça va sans dire, prese da major.

Insomma, sicuramente lo streaming online ha sviluppato la fantasia dei musicisti e del business musicale più in generale, com’era successo precedentemente con altri media, quali il vinile, il CD e le cassette.

Che questo progresso della creatività sia del tutto positivo, ad un’occhiata più approfondita, non sembra così scontato.

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