Intorno all’albero alto si balla

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Alla luce densa espongo le mie ossa e i muscoli che le ricoprono per poterli vedere e riconoscere come parte del mio corpo. Alla luce che diffonde le promesse del giorno alzo le mani e guardo. Mani di uomo, fatte per il lavoro, costruite secondo una struttura prensile e opponibile per compiere azioni complesse. Guardo il petto dentro il quale si espande il respiro. Lo vedo da sopra e soltanto in parte. È il luogo che preme più forte, che spara di gran cassa, esalta, uccide e rilancia più in alto. Si contrae come un mantice. È la membrana a pieghe di uno strumento attraversato dall’aria. Latra e respira. Riannoda e compone insieme note atmosferiche, nenie velate che si sfaldano a grani. È voce dal ventre e di petto, vibrante di interferenze grasse.

Guardo le gambe che mi conducono dove credo giusto andare: muscoli tesi e polpacci ben fatti.

Mi alzo, mi distendo, agito braccia e dimeno arti. Non comprendo chi sono. Quello che vedo è un bipede eretto su quelle gambe.

Ascolto rumori e ne produco. Quando cammino, respiro, penso. Quando urto un oggetto, quando apro, sollevo e appoggio, quando parlo e dico quello che penso.

Ho calpestato la terra, calpesto la terra e talvolta le persone che la calpestano con me. Compongo gli stessi teoremi e mi ci sperdo, infognato nello scialo del pensiero lucido, nello smarrimento del disegno e del progetto. La guazza è il campo da gioco, il teatro, la promenade.

Mi alleo con il cuore e con la pancia, con la testa e col furore. Ira di nervi, languori di stomaco, esternazioni del corpo, bramosie ludiche, atti di forza assommo e accompagno. Ogni giorno. Assommo e accompagno. Seleziono, rifiuto, comprimo l’azione al risparmio, per inazione e codardia, per non vivere più sul discrimine pericoloso, e scelgo la pianura del tedio. Al muro di intonaco giallo mi accosto e ne imito le campiture, mimetico e non visto. Imparo dalla lucertola e riscaldo il sangue.

Chi si è fatto scorgere e ha alzato la testa, chi si è fatto vedere è morto. Chi ha proiettato l’ombra sbieca, ma netta, ha perso. Anche il mio vicino si assesta sul giallo, di giallo si dipinge le mani, il corpo e sonnecchia al sole. Apprende dal camaleonte e prospera.

Un amico non mi parla da mesi e io lo ricambio. Il silenzio ci copre entrambi di un panno fitto, ci nutre di un pane denso che divoriamo a morsi per riempire le mascelle, e non dire.

Leggo e mi riconosco. Riconosco in me l’eterno pensiero di chi ha spaccato la pietra per trarne un automa inanimato, simile al suo fautore. Un gigante con mani e braccia potenti ha percosso il maglio sul ferro e dalla pietra ha tratto, dall’intonso ha estratto.

Per quanto tempo? Per quanto tempo ancora lascerò che le parole vaghino e il canto si espanda fino all’orizzonte ultimativo della sera senza che alcuno l’abbia ascoltato, senza che alcuno abbia pianto o riso con me?

Conosco le domande ma non posseggo le istruzioni di montaggio, la morale della storia, il premio per il gioco, l’onore del podio. A domanda non rispondo e vorrei essere ottuso.

Traccerò un solco con aratro spinto da buoi. A fatica forzerò le zolle, profanerò la terra, calerò una mano e deporrò un seme. Quante mani purificate al lavacro hanno deposto un seme e quante altre hanno pestato il seme, disperso quel seme, tracciato un altro solco, eretto mura sbieche e hanno prosperato?

Sarai contadino o devastatore? Sarò contadino o devastatore? Apprenderò a fatica le leggi di natura. Le interpreterò applicandole soltanto in parte. La mia natura è prendere parte e distaccarsene? Presente ozioso, estraneo presente, alacre lontano. Vedo la mia immagine riflessa alla finestra di fronte, della facciata di fronte e come l’amico di Gatsby ne contemplo il contorno alieno, l’assenza da qui, l’astanza frontale e vetrosa.

Di certo gli anni mi daranno risposta, se avrò tempo, mi daranno risposta. Quando concederemo tempo all’attesa avremo risposta.

Ai rami più bassi degli alberi intorno, al centro del nostro villaggio, qualcuno ha appeso foglie di carta scritte con larghe parole. Inchiostro nero e rosso è stato deposto. Sulla carta giace allungato, in stringhe di versi, il vero.

Il vero è stato tracciato.

Gli uomini, a turno, si avvicinano ai rami, staccano le foglie ed enumerano interpretazioni possibili. Traggono insieme il responso, mentre le foglie disposte e scomposte dal vento, riprendono a narrare alterne vicende. Non avranno resta il migrare dei giorni, lo sciame degli anni, la coda di latte stellato che corre dietro agli eroi segnalatori del destino nel cielo.

Se crederai avrai fortuna. Se crederò non cadrò e alla caduta farò seguire il colpo di schiena, l’ardire dei sensi, l’invito alla lotta, l’ascesa.

Sul villaggio una coperta d’inchiostro notturno drappeggia le case, s’accendono stelle come fuochi a consumare la sera. L’albero al centro è stato addobbato con luci e lampade a grappoli. L’albero alto è stato addobbato di luci e lampade a grappoli.

Stasera c’è festa. Stasera si balla! Intorno all’albero alto si balla!

Mani sorelle in tondo, in tondo. Occhi ridenti e guance incendiate. Fratelli accanto a fratelli s’accostano al vino. Scorre nel sangue il vigore della vite. Nella carne scorre il sangue dell’uva.

Stasera si balla!

di Salvatore Enrico Anselmi

Intorno all’albero alto si balla