Quell’oscuro oggetto del Nonfiction

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Il ricco scapolo Juan Pablo Galavis, ex-calciatore venezuelano di trentasei anni, deve trovar moglie. Un manipolo addestrato di ventisette ragazze dai capelli splendenti, segregate in una bella villa con piscina, combattono l’una contro l’altra per conquistare il cuore di Juan pie’ veloce, Achille romantico in giacca e cravatta. Riuscirà Juan a scovare, tra quelle assatanate di matrimoni, la moglie devota che il destino crudele continua a negargli?

Egli è un eroe e non si tira indietro, a costo di dover testare tutte e ventisette le pretendenti, una per una, durante prove assai pericolose: i fatali appuntamenti in esotiche locations, al termine dei quali, donando una rosa rossa alla pretendente di turno, ne decreterà la sopravvivenza o meno all’interno del reality. Sebbene manchino il mare incantato dell’Asia Minore, le incursioni dei Metimnesi e tanto pastorale pudore, c’è molto di Longo Sofista nel plot di The Bachelor, reality show statunitense corredato da numerosi spin-off e arrivato alla ventunesima stagione: come nei migliori romanzi greci, giovani belli e ricchi alla ricerca del vero amore vivono avventure scintillanti in posti da cartolina; alla fine della storia, salvo rari e sconvolgenti deviazioni dalla norma – ad esempio lo scapolo ribelle che decide sorprendentemente di non sposare nessuna delle splendide pretendenti – tutti vivono felici contenti e maritati. Lo scrittore e critico statunitense David Shields, nel frammento numero 2 del suo Fame di realtà – Un manifesto, considerato uno dei testi di teoria della letteratura più influenti del nostro secolo, ha scritto che «The Bachelor ci dice di più sulla vita di coppia di quanto una qualsiasi commediola romantica riuscirà mai a fare». Come dire che Alta Infedeltà – 1000 modi per tradire, programma di Real Time che ricostruisce storie d’amore e tradimenti narrate dalla prospettiva del tradito, del traditore e dell’amante, ci dice molto di più sul sentimento della gelosia di quanto faccia Proust in Un amour de Swann, solo perché quest’ultimo è “finto”.

Lecito quindi vagheggiare una futura civiltà di spettatori che di fronte ad un malinconico Woody Allen che sgrana i motivi per cui vale la pena di vivere – il vecchio Groucho Marx, Joe di Maggio, i film svedesi naturalmente, L’educazione sentimentale di Flaubert, le incredibili mele e pere di Cézanne, il viso di Tracy -, famosissimo finale della commedia sentimentale Manhattan, preferisca Juan Pablo Galavis che regala rose rosse alle sue spasimanti in costume da bagno? Probabilmente non c’è bisogno di far distopie per imbattersi in una società che ad un nevrotico occhialuto che filosofeggia sul sentimento d’amore preferisce un muscoloso calciatore circondato da ventisette ragazze in vesti succinte decise a sposarlo. Che la ragione di questa predilezione sia però «il dire di più sulla vita di coppia», è una provocazione infondata, in polemica verso gli attardati cultori della fantasia che non sembrano avere più spazio in un globo culturale assetato di storie vere; la “realtà” – Shields cita Nabokov e ci ricorda che «realtà è l’unica parola che senza virgolette non significa niente» – è l’unico mezzo di comunicazione rimasto agli scrittori?

Molto meno catastroficamente, parla lo scrittore Geoff Dyer, vincitore nel 2015 del premio Windham-Campbell per la narrativa non-fiction, in un articolo pubblicato sul The Guardian, dal titolo Based on a true story: the fine line between fact and  fiction: per lungo tempo il confine naturale tra non-fiction e fiction è rimasto intatto, illibato, mentre oggi al contrario questo confine, abitato da un numero sempre maggiore di scrittori, è diventato uno spazio fertile per ricerca e sperimentazione. Dyer, evitando accorate riflessioni di natura sociologica sulla soppressione programmata della fantasia nella società dei mass-media, liquida brevemente la questione sullo stato di salute del romanzo – il novel, la fiction per eccellenza – che non è morto né morituro e nota a riguardo che nessuna persona sana di mente direbbe che negli anni ’90 venivano fatti progressi nelle composizioni per quartetti d’archi paragonabili a quelli che si andavano facendo nella musica elettronica. Esattamente allo stesso modo, oggi il romanzo classicamente inteso, è un genere meno interessante laddove invece sono i progressi che si registrano nel genere della narrativa non-fiction che attirano l’attenzione. Sembrerebbe quindi, messa così, solo una questione di prospettiva e di riflettori: il romanzo non è deceduto quanto semmai decaduto dalla condizione privilegiata di cui ha continuato a godere per più di due secoli.

Quando in Italia si parla di Nonfiction si fa riferimento ad un tipo di narrativa, molto praticata in questo début de siècle, caratterizzata dalla commistione di invenzione letteraria e resoconto di fatti realmente accaduti, l’opera icona della quale è l’assai popolare Gomorra di Roberto Saviano, progenitore di una serie di romanzi impegnati ad offrire la testimonianza di quello che un Gadda del nostro millennio potrebbe ancora definire, mutatis mutandis, «il residuo fecale della storia». Dando un’occhiata alla lista dei migliori 100 libri non-fiction del XX secolo, stilata dalla casa editrice newyorkese Modern Library, troviamo The Second World War di Churchill, Homage to Catalonia  di Orwell, Speak, Memory di Nabokov: principalmente saggi, scritti memorialistici, autobiografie, ossia i sottogeneri principali che nei paesi anglosassoni appartengono al macrocosmo generico della prosa non finzionale e dal quale i romanzi ne sono ostracizzati. E ne sono ostracizzati in virtù di quella differenza che intercorre tra un saggio come The Roman Revolution di Ronald Syme, classico della storiografia novecentesca pubblicato nel 1939, e un romanzo storico come Quo vadis? di Henryk Sienkiewicz. Il romanzo storico, che utilizzando i moduli narrativi tipici del romanzo – costruzione dell’intreccio, caratterizzazione dei personaggi, focalizzazione della narrazione -, ricostruisce sulla base di documenti di varia natura una società quanto più verosimilmente possibile e può intarsiare nell’intreccio fittizio fatti accaduti e persone storicamente esistite: ne I promessi sposi le vicende di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, personaggi di fantasia, coesistono con la peste del 1630 e la monaca di Monza.

In un saggio tale promiscuità tra finzione e verità storica sarebbe necessariamente inammissibile. Il romanzo non finzionale condivide con il romanzo storico un alto grado di interferenza tra invenzione autoriale e realtà, sebbene le relazioni che legano questi due mondi siano, nel primo caso, di tutt’altra specie. La realtà del romanzo non finzionale non è un passato remoto estraneo all’autore che deve essere rievocato sulla base dello studio accurato di fonti storiche e vividamente dipinto nella sua, per dirla alla Lucàks, «totalità degli oggetti»; la realtà raccontata è bensì quella del passato prossimo o addirittura del presente stesso dell’autore: non una sua sintesi di usi, costumi, idee estetiche e morali – giacché solo la lontananza concede una visione d’insieme, tanto più illusoria quanto più l’oggetto è grande – ma un presente episodico, frammentato, stagionale, a volte biografico. Spesso, si tratta del presente cartaceo, dalla longevità di farfalla, dei quotidiani. La letteratura non finzionale di fatto nasce e cresce in terra statunitense nella pancia del giornalismo, per poi fuoriuscirne una volta divenuta creatura altra e autosufficiente.

Al novantaseiesimo posto della lista di cui sopra, 100 Best Nonfiction, si colloca In Cold Blood di Truman Capote, che con questo romanzo-verità è considerato negli Stati Uniti il padre fondatore del non-fiction novel. Uscito nel 1966, il romanzo è il risultato di un’inchiesta di Capote della durata di sei anni relativa alla tragedia di Holcomb, paesino di duecentosettanta anime del Kansas occidentale che nel novembre del 1959 fu teatro dell’efferato eccidio della famiglia Clutter compiuto dal duo di ex galeotti Richard Hickock e Perry Smith. Il romanzo è il resoconto puntuale dei fatti ricostruiti sulla base delle testimonianze raccolte da Capote attraverso frequenti colloqui con protagonisti e comparse del tipico caso di cronaca nera truculento quanto inspiegabile: assassini, investigatori, avvocati, amici e concittadini delle vittime. L’opera di Capote, asceso immediatamente a best-seller, nasce nell’alveo del movimento americano del New Journalism, il cui programma, delineato dalla mente di Tom Wolfe, prevede l’utilizzo in ambito giornalistico delle tecniche tipiche della narrativa: caratterizzazioni, focalizzazioni, descrizioni accurate degli ambienti, costruzione di una storia. Nessuno dei fatti riportati da Capote è inventato, esattamente come in un impersonale resoconto cronachistico, ma, a differenza di quest’ultimo, di lunghezza limitata e finalizzato non ad intrattenere bensì ad informare, il resoconto di Capote è organizzato come una trama di romanzo: ci sono dei personaggi, un intreccio da sciogliere, una conclusione risolutiva. L’unica differenza rispetto ad un romanzo è che non c’è niente di inventato.

In Italia negli ultimi anni si è incominciato a delineare un florilegio di autori autoctoni, una eziologia del genere in grado di illuminare i precedenti narrativi nostrani i quali, insieme alle suggestioni nordamericane, hanno influenzato l’attuale generazione di scrittori a basso contenuto finzionale. Così scrive Palumbo: «come è vero per l’esperienza statunitense, anche in Italia il germe di una nuova letteratura attenta al quotidiano ed alla dimensione politica germina all’interno dell’ambiente giornalistico: ai più esotici Esquire e The New York Times o Harper’s, si sostituiscano i nostri Unità e Il Manifesto, dove lavorano Sandro Onofri, Sandro Veronesi e Fulvio Abbate (per citare solo alcuni dei nuovi “padri della cosiddetta non-fiction italiana“)». Le interferenze tra giornalismo e letteratura non sono un’importazione d’oltreoceano. Nella storia letteraria nazionale del Novecento un cospicuo numero di uomini di lettere – per Sciascia, cui mi accodo, etichetta preferibile a “intellettuali”, «termine di generica e imprecisa massificazione» – si è raccolto attorno a riviste o ha prestato la propria penna a varie testate.

Pensiamo agli Scritti Corsari di Pasolini, a La rivoluzione culturale in Cina di Moravia, pensiamo agli articoli di cronaca nera di Buzzati, all’Affaire Moro di Sciascia, solo per citare nomi noti. Il giornalista Piero Ottone, direttore del Corriere negli anni delle prime pubblicazioni di Pasolini, scrive nell’introduzione all’edizione del 1975 degli Scritti Corsari editi da Garzanti: «Noi avevamo aperto le colonne del nostro quotidiano agli uomini di cultura, nella certezza che tutti i problemi della convivenza umana trovano la spiegazione, e le proposte di soluzione, nel regno delle idee prima che nella prassi di tutti i giorni». Generalmente, il letterato che dibatte su questioni etimologicamente politiche scrivendo su quotidiani, si impegna nei confronti della società.

Utilizzando il termine “impegno” come parola- guida si può attraversare la narrativa novecentesca percorrendo la strada delle belles lettres che rinnegano se stesse per aprirsi all’attualità, alla politica, al popolo: saltando dall’editoriale di Vittorini in apertura del primo numero del Politecnico, uscito nel 1945 pochi giorni dopo la sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale, a quello di Enzo Siciliano che, pur lavorando nei primi anni Ottanta, in un periodo di forte scollamento generale tra la politica e gli uomini di lettere, nell’occhio del ciclone culturale postmoderno, inaugura le terza serie della rivista Nuovi  Argomenti vergando: «Scrivere di politica: portare o costringere gli scrittori a occuparsi di quei fatti che assediano da vicino l’esistenza quotidiana, e che ci appaiono indecifrabili, lugubremente enigmatici». Quasi quarant’anni dopo il Vittorini che salmodiava il mea culpa dell’intera cultura occidentale, proclamando che «occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell'”anima”».

E da Vittorini saltare spericolatamente al nostro secolo per incontrare il manifesto New Italian Epic, scritto e pubblicato inizialmente online nel 2008 dal collettivo Wu Ming, nel quale si tenta di delineare una sorta di “scuola” di narratori italiani contemporanei animati dalla medesima tensione verso il pane e il lavoro vittoriniani: «I suoi tratti principali sono: impegno etico nei confronti dello scrivere e del narrare, il che significa: profonda fiducia nel potere curativo della lingua e delle storie; un senso di necessità politica; […] sovversione sottile dei registri e della lingua. “Sottile” perché ciò che conta non è la sperimentazione linguistica fine a se stessa: quel che conta è raccontare la tua storia in quello che senti essere il miglior modo possibile; sintesi di fiction e non- fiction diverse da quelle a cui eravamo abituati (ad esempio il gonzo journalism alla Hunter S. Thompson), un modo di procedere che oserei definire “distintamente italiano”».

Il gonzo  journalism, variante del New journalism per la presenza forte della soggettività dell’autore, è quel tipo di giornalismo sganciato da ogni obbligo di “verità” oggettiva che in ambito letterario ha prodotto opere come A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again di David Foster Wallace, reportage di una crociera extralusso ai Caraibi nel quale l’autore, abbandonata ogni maschera di impersonalità, lascia parlare la sua sensibilità nevrotica gettandosi in descrizioni disperate, caustiche e divertentissime della peggiore classe media americana.
Il modo “distintamente italiano” di fare non-fiction di cui parlano i Wu Ming sembra il figlio diligente disceso dal connubio tra la dichiarazione di fede ai principi alla base della letteratura civile, impegnata, una lunghissima linea di tradizione nazionale che si snoda, nei suoi presupposti etici di base, dal De vulgari eloquentia di Dante passando per i Poemi del Risorgimento di Pascoli fino all’intellettuale organico di Gramsci, e un gonzo journalism molto meno spregiudicato.

In Italia molti autori scrivono romanzi non finzionali intorno ai temi caldi della politica sui quali si inscena il dibattito pubblico, uno tra tutti il fenomeno dell’immigrazione, che è un vero e proprio Leitmotiv della nostra narrativa più recente. Molte trame di romanzi hanno per protagonisti immigrati: da Storia di Brigitte, vita di un’immigrata congolese raccontata dall’autrice Melania Mazzucco, la quale apprende i fatti dalla donna in persona, a Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella, storia strappalacrime di una ragazzina somala che la pericolosa traversata del Mediterraneo separa dal suo sogno di partecipare alle Olimpiadi di Londra del 2012. Le possibilità della narrativa non finzionale in Italia sembrano essere state principalmente sfruttate da questo gruppo di scrittori “neo- neorealistici” che ottengono un grande successo di pubblico e il privilegio di pubblicare con le due maggiori case editrici nazionali, Einaudi e Mondadori.

Il «senso di necessità politica», «l’impegno etico nei confronti dello scrivere e del narrare», quasi come comandamenti ispirati dal Verbum, uniti a una grande disponibilità del mondo editoriale, vincolano i mezzi del Nonfiction ad una gamma di realtà molto limitata – la realtà dell’immigrazione, della mafia, della guerra – e al romanzo di testimonianza e denuncia, mirati a sensibilizzare il lettore, a informarlo intrattenendolo, cercando così di limitare, nell’influenzare comportamenti e idee, la rilevanza di un sistema massmediatico elefantiaco. O almeno, così si va dicendo.

di Agnese Pieri

Quell’oscuro oggetto del Nonfiction