A cosa serve una storia? Il seme della tempesta, una trilogia di Teatro Valdoca

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Il teatro è un’opportunità. Moltitudini di mezzi e linguaggi esplorati a fondo, concentrazione di pubblico, tecnici e performer, un’alchimia sapientemente mescolata dalla regia e ricercata nelle sue diramazioni, per proporre la propria idea di quel che è più efficace. C’è del teatro povero e scarno fino all’essenziale, c’è il barocco più arzigogolato, ma tutto si riconduce lì, alla scatola vuota ed al come riempirla.

Il Seme della Tempesta – Trilogia dei Giuramenti, produzione di Teatro Valdoca, sfrutta questa scatola scenica in un inno alle sue potenzialità ed a quelle umane, con la forza della parola esortativa e sacramentale di Mariangela Gualtieri e con un’attitudine rituale, ricercata, accurata: per un intero anno, lungo l’Italia, Cesare Ronconi ha proposto laboratori volti a trovare i 12 giovani ragazzi che avrebbero preso parte alla vera Tempesta dello spettacolo, la sua terza parte, Giuramenti. Giuramenti nasce in residenza a L’Arboreto – Teatro dimora di Mondaino, luogo dove la compagnia ha lavorato per tre mesi, nel bosco e
nelle sale, condividendo canti, esplorazioni, prove e vita quotidiana. La Gualtieri ha prodotto i suoi testi su misura per loro, talvolta ripescando ed adattando brani da altre sue opere, come Porpora e Caino, mentre
con urto e profondità il lavoro si sviluppava: l’impeto dei giovani ragazzi è il fulcro dello spettacolo, il collante di quei quadri misterici, di quelle incursioni selvagge, di quei monologhi che tagliano il silenzio
come una lama.

Giuramenti debutta come spettacolo a sé stante nel 2017, e da lì l’attenzione è andata verso la costruzione di quel silenzio su cui i ragazzi avrebbero dovuto impattare, sulla creazione di una qualità d’ascolto particolare come l’aria rarefatta delle alture. Le altre due parti della trilogia sono volte a questo, al ricreare
la quiete prima della furia degli elementi. La prima parte, “Non ancora, eppure già”, è un concerto: Enrico Malatesta alle percussioni ed Attila Faravelli all’elettronica accolgono il pubblico nello spazio scenico dove lo spettacolo avrà luogo, che si estende dal palco alla platea, coi sedili coperti da teli ed una struttura in
metallo, alta, centrale. Nel mentre, proiezioni di volti prodotte in live vengono proiettate su due grandi tele appese sul palco dove un attore muove passi lenti indossando scarpe-trampoli. La trasformazione della
scena statica, coi primi tuoni, annuncia la comparsa di un angelo, silente, sopra alla struttura di metallo, e di un personaggio dall’aria antica, accompagnato sul palco a fronteggiare l’angelo: è la Gualtieri, che recita a microfono la seconda parte, “Discorso ai vivi e ai morti”, sospesa in un silenzio solo a volte intervallato dai
canti del coro disposto tra il palco e la struttura dell’angelo. Il testo è perfettamente gualtieroso, ma porta in sé una evoluzione dai suoi scorsi testi: l’aver scritto prima per dei giovani e poi per il suo personaggio,
che ha invece il gusto di chi ha compiuto un lungo attraversamento della vita, lascia vive entrambe le fiamme, quella viva e fremente dei giovani, quella posata dell’anzianità.

Spezza il ritmo, che da questo punto in poi verrà più volte scomposto e frammentato, l’arrivo dei 12 performer della terza parte. Da lì, un’alternarsi di monologhi e dialoghi, scene di movimento, canti corali, impressioni misteriche. L’estetica Valdoca gioca su questi pieni e vuoti, lasciando che l’attenzione dello spettatore resti attiva nel decodificare scene senza esplicite spiegazioni. I testi raccolgono istanze variegate, e lasciano esplodere in forme diverse la ricerca, l’angoscia, la determinazione e la rabbia di una nuova generazione che si rapporta ai mille aspetti dell’esistenza con un ascolto profondo e secco, figlio del bosco dove hanno fatto nascere lo spettacolo. L’energia tocca il culmine infatti nelle scene corali, di movimento ma soprattutto di parola: lo spettacolo si chiude così, con trenta voci che recitano all’unisono, a voce alta, nel crescere dell’illuminazione, di potenza.

Qui ritorniamo al discorso del teatro come strumento, come opportunità, come scatola. In questo “affresco vivente” Cesare Ronconi utilizza con precisione ogni strumento per ottenere una dinamica di sensazioni ampia e precisa. Sensazioni che servono per trasformarsi in impressioni legate ai testi ed alle azioni portate in scena. Dette impressioni sono il punto a cui la regia dello spettacolo pare tendere, e non ad uno specifico senso narrativo: non c’è storia, né uno specifico stare preciso, se non quello suggerito dai ragazzi sulla scena, tutti coinvolti in una vitalità corale ed uniforme. I messaggi, precisi, si alternano nei diversi momenti, come appunti di viaggio. La domanda che è lasciata aperta da questo spettacolo è simile a quella che scatenano molte opere d’arte contemporanea: che vuole dire, veramente? Le tracce sparse sono una mappa, in queste opere, che costringono lo spettatore ad essere attivo nel rielaborarle. Questo spettacolo
ha la robustezza statica di queste opere, una forza detonante che colpisce senza filtri interpretativi, in maniera diversa a seconda del modo in cui si sia teso l’orecchio.

Il Seme della Tempesta – Trilogia dei Giuramenti è una produzione Teatro Valdoca in collaborazione con ERT, testi di Mariangela Gualtieri e regia di Cesare Ronconi. I dodici ragazzi di Giuramenti sono Arianna Aragno, Elena Bastogi, Silvia Curreli, Elena Griggio, Rossella Guidotti, Lucia Palladino, Alessandro Percuoco, Ondina Quadri, Piero Ramella, Marcus Richter, Gianfranco Scisci e Stefania Ventura.

A cosa serve una storia? Il seme della tempesta, una trilogia di Teatro Valdoca