Cheiloschisis y Carducci

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Saturn è Saturno, anche in spagnolo lo è. Illuminata dalla semplicità dell’associazione si concesse alle fantasie dell’ermeneutica, confondendo il faunio per affari siderali. Alla professoressa dovette invece sembrare offesa personale, tant’è che non le riuscì di trattenere, con l’eleganza della sapienza, il violento raptus cattedratico che le incazzò i nervi. Glielo strillò a pieni polmoni che il buon Carducci si riferiva al verso e non al pianeta.

– Anche la donna della poesia parla inglese come te, alla donna però sembra piacere di più l’Italia. Almeno sai dove si trovano le terme di Caracalla? Ti avviso – aggiunse con immorale ironia – non sono qui in Sicilia.

Quella domanda, ne sono sicuro, costituì per Marcela la tanto cercata opportunità di devastare l’intera nazione con l’odio che sinora aveva confinato solo a me. Posso immaginarla perfettamente, ubiqua, tra la falsa presenza che le regalava quel quattrocchi con la professoressa e il più sincero tour che la sua mente percorreva. Tanica in mano, la vedevo abbeverare con la benzina le Terme, il Colosseo, il Foro, la Basilica e qualsiasi altra cosa avesse rischiato bellezza sul suolo italiano.

Carducci poi l’avrebbe fatto inginocchiare come un prigioniero di guerra, ma solo se accanto a me. Ci avrebbe bastonati a morte, dimostrandoci con la forza della pragmatica quanto il passato sia falso. Perché Marcela partecipava con la giusta intelligenza al motore delle piante e al motore del mare, a quello delle cose tutte. Il verso, come la preghiera, o il più geniale assemblaggio di immagini e di suoni, il surplus psicologico, era malattia per lei, broglio per il vecchio prete della vita. Ero io.

– Hai almeno preparato una poesia del Carducci? Una a piacere dico. Marcela, devi farmi capire se durante quest’anno sei riuscita a padroneggiare la lingua. Non posso ammetterti agli esami altrimenti, lo capisci vero?

L’aveva preparata la poesia, e me l’aveva cantata tutta la notte. Cantarla era l’unico modo per svegliare la memoria dalle narcolettiche parole. Si costrinse fino al dolore per imparare, per acciuffare quelle sfumature troppo adulte per il suo nascituro italiano. Non avrebbe mai accettato il mio sporco aiuto, allora provavo a rabbonirla carezzandola, chiudendole gli occhi convulsi dalla stanchezza, annusando i residui viola delle sue palpebre leggermente pittate. Lei rispondeva con movenze feline, sfuggendomi piano. C’era una poesia da capire, una falsa idea; nenia di vita vissuta male a cui era costretta. E si costringeva, leggendo e traducendo nelle sue lingue, in inglese e in spagnolo: «you, of my useless life the last, unique flower…» Poi d’accapo, di nuovo: «de mi inútil vida última sola flor…» E si costringeva; si costringeva finché, a pochi secondi dalla mattina, fece in tempo a tradirsi dichiarandomi che alla fine non ero completamente un bugiardo; e che sempre alla fine, la poesia può essere anche una cosa bella.

Adesso non doveva sbagliare. Se non ci fosse riuscita avrebbe infranto l’ultimatum della madre, avrebbe dovuto comperare il biglietto. Mi sarebbe dunque volata via. E come avrebbe potuto scagliarmi il suo odio da un altro continente? Non l’avrebbe mai accettato. Allora raccolse tutta se stessa e sconfisse quella goffa afasia a cui era stata condannata per tutto l’anno scolastico; e fra lettura e relativa spiegazione giunse a ferirsi di nuovo, per me, fra le risa dei presenti. Con tremolii e tristi lucori agli occhi urlò male: «tu-delle-inudil-vida-estremo-uniche-fiore-sei…»

Il mio grande piano era incrociare le dita sui gradini di una Decò poco distante dal suo istituto. Quell’azione consumava tutto il mio progetto di vita, fino alla morte. A me infatti, manco il tempo di campare, bastarono vent’anni per disertare ogni scienza, ogni arte, ogni religione. Io ero inabile per dispetto.

Pure quel gesto mi fu interrotto. Dalla chiesa di piazza Cavour, scolorata da una primavera puntuale, si fece strada verso il mio stesso gradino un piccolo mendico. Lui non mi ritenne degno di sguardo, io invece sì; mi accorsi dei suoi occhioni scuri e del suo viso arrotondato, del suo naso sporco e dello sgarro in natura naturata del suo labbro leporino. Non era bravo a chiedere soldi, s’annoiava. Lasciava marciare le cento persone che entravano nel market, volteggiavano nei tornelli e poi tornavano, come se questi non gli dovessero nulla.

– Se non t’impegni, oggi non pigli nemmeno un euro – lo rimproverai.

Lui continuava a giocare con lo spazio correndo attorno a se stesso, lungo un cerchio inesistente; poi facendo saltare in aria il barattolo di latta, ancora vuoto, e sfidandosi a riprenderlo proprio un attimo prima di farlo schiantare.

Presi qualche soldo e glielo diedi, un po’ scocciato per la mia ingiustificabile interruzione mi ringraziò lo stesso.

– Ora però chiedi a questi signori, due euro sono pochi.

Annuì, ma non riusciva a darmi piena retta. Una maledetta tosse lo distoglieva dalle mie parole. Un attimo fuori dall’apnea mi disse: – Tanto più tardi arriva la signora.

– La signora? E che ti dà questa signora?

– Mi dà i soldi e mi compra tutte le cose che voglio. Mi compra il panino con la cotoletta, oppure mi compra…

– Ho capito, ma se chiedi anche agli altri guadagni di più non ti pare?

Soffiò seccato; doveva essere veramente faticoso far capire le cose ad un ottuso come me.

Forse più per falsare il tempo che per filantropia, decisi di rubare il buon gesto della Signora andando a sfidare la lunghissima fila del reparto gastronomia. Quasi me ne pentivo, la calca s’era già immersa in uno spietato pascolo, affamando pure me che di soldi ne avevo per una sola bocca. Il rimorso però era giunto troppo in ritardo per placare il crescendo della mia eccitazione cristiana; comperai un panino con una cotoletta di pollo dentro, grosso almeno la metà di quel disgraziato. Era bello caldo e m’affrettai.

Appena s’aprirono le porte d’uscita sentì un leggerissimo, insignificante tonfo; come fosse caduto a terra un sacco per la spesa. Chi l’aveva causato era a terra e l’asfissia l’aveva così forte che per un attimo dovetti postulare l’idea che un ladro invisibile lo stesse strangolando per fargli sputare fuori quei suoi occhioni, così da scipparglieli via. Me lo tirai su per le ginocchia, mentre degli inetti attorno guardavano la scena sbigottiti. Non mi pareva vero che quello fosse un essere umano, tanto era leggero e in miniatura. Sempre più gente rinunciava agli acquisti per assistere all’evento, dovetti insultarli tutti per animarli e costringerli a chiamare i soccorsi.

Quando questi arrivarono ero sudato perché gli occhi adesso li aveva chiusi e il dubbio che il ladro assassino fosse riuscito a rubarglieli si faceva sempre più reale.

I paramedici sfumati dal bailamme di tutte le mie paure me lo strapparono dalle mani per tentare il salvataggio. Rinvenni quando poco distante vidi Marcela frugare dentro la borsa e lottare coi sui capelli di stravento. Cercava il portafogli. Quando lo trovò lo resse con estrema cura, spingendolo col palmo verso il suo seno. Sparò il viso in alto e si sbarazzò dei capelli. Era avvampato il suo viso, bruciava per le arrabbiature della giornata. Mi sconvolse capire ch’era disposta a scordarle per il suo magnifico appuntamento.

Non passò molto perché soffrisse per la scoperta. Pianse sul mio collo; per l’ultima volta avevo mentito alla Signora. Molte, troppe cose sarebbero morte quel giorno.

Autore: Salvatore Santagati
Cover artwork: Olivia Descampe

Cheiloschisis y Carducci