Ho avuto in sorte

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Ho avuto in sorte un corpo eretto e queste mani, queste gambe, questo petto, questi occhi, questa voce, questa mente che sovrintende e argomenta.
Ho avuto in eredità questo pensiero che ad altri simili si aggrappa e si sostenta, come grazie a un cibo nutriente, come grazie a un serto prensile che a un altro tralcio s’appende e si avvinghia.

Il dono del lavoro per rendere abitabile e meno ostile questo luogo, l’azione cosciente per indurre ciò che mi circonda ad ascoltarmi e a seguire il mio passo, la mia andatura, la mia corsa. Ciò consentirà di coprirmi il capo con un tetto. E se un calabrone di morte, un volo di strage dovrà ronzare sopra la mia testa, bloccare per un’interminabile sequela di istanti la mia azione, cercherò, ad allarme cessato, di disarmare la mano dalle bocche di fuoco.

Tenterò, fino alla restante ultima istanza, di armarla solo con la tenacia e l’abilità dell’intreccio, con la forza che innalza, costruisce e consolida.
Tutto ciò permetterà di non opporre violenza alla violenza, paratia contro paratia, muro e filo metallico, palizzata e argine, offesa che ferisce a morte e morte che sottrae per sempre a una vita giusta.

Tutto ciò m’indurrà a vivere nel bosco ascoltando, nella pianura arando, nella città e nel deserto, nel deserto della città e nella riga piantata di verde, lungo il filare dolce di vite, lungo il crinale al confine, lungo il confine aperto e amico.
Non saremo soltanto opposti pensieri. Non soltanto sentinelle che impediscono il passo.

Non saremo controllori incontrollati, speculatori senza norma.
L’arricchimento a discapito di chi non potrà mai arricchirsi disintegra il corpo e le case, come il fungo venefico esploso sulla città.
Se detentore dovrò anche imparare a elargire.
Se edotto dovrò imparare a insegnare.
Se avveduto dovrò trasmettere avvedutezza, se chiaro nel cuore dovrò risplendere a mo’ di lucerna.

Se lettore appagato dovrò recitare e leggere, ancora e ancora alle generazioni che non sanno, quei versi perché non se ne perda memoria.
Tutto ciò affinché l’uomo non dimentichi, non costruisca solo una pira incendiata, un mucchio di pietre, una lapide incisa, ma segni i filari della comunanza, le fondazioni del giusto, i cavalcavia della conoscenza.

Dovrei imparare a dire: «Se si è rotto potremo accomodarlo» – «Se io ce l’ho anche tu dovresti averlo» – «Se credo che un qualche affanno opprimente potrà essere oppresso e scacciato, allora insieme potremo scacciarlo».
Non più torri avventate, tracotanti costruttori, voli fino al sole senza conoscere ancora questa terra. Non più ali liquefatte e schianto a terra, non più pigmentazioni che si sciolgono al calore troppo vicino e troppo cocente che distrugge in luogo di consolidare.

Dall’esperienza derivi la conoscenza consapevole, si liberi la mano certa, il gesto sicuro. L’occhio, animato dal cuore e dal cervello, guidi la mano e la mano tragga dall’impulso ricevuto il segno sicuro contro il tedio, contro l’incertezza, contro l’inedia, l’inazione, il non saper più vedere con animo terso e prospettiva limpida che accanto siede un uomo, che accanto vive una donna, che accanto cresce il tralcio ben condotto al sostegno.

La conoscenza non sia compiacimento o erudizione che parla allo scheletro di sé stessa, non sia mezzo di alterigia e sopraffazione per chi non detiene quella conoscenza. Non strumento di potere subdolo.
Il poter fare sia servizio, perché chi è nella condizione di agire ottenga il bene di quanti non ce l’hanno.

Al potere il governo degli uomini, non quello dei burocrati. Il governo regolato dalla legge umana del non essere ciò che si detesta e dell’ambire a ciò che più si ama. Il governo dei savi e degli artisti, che non scrivano soltanto perché lo sanno fare, che non sappiano solo comporre perché musicale è il disegno che ravvisano dietro l’ordine casuale degli accenti, che dipingano, scolpiscano, legiferino perché è loro scopo ragguardevole rendere degno ciò che non lo era e normare ciò che ricadeva nella non definizione.

È questa la vita che voglio. Questa vita che non conosco fino in fondo e talvolta mi delude, come gli uomini che mi sono accanto. E come io stesso faccio.
Questa vita che mi esalta, si dipana davanti, mi irretisce tra le sue pagine, tra le sue ire inutili, tra le stoltizie del pianterreno e le vette più alte.
Questa vita addobbata a festa come nel più infantile giorno di festa e baldoria, nel profumo di zucchero e dolciumi, nel refolo tiepido, nella scoperta inattesa, tra sublimi esecutori e bande che suonano l’inno con clangore stonato, tra i mercati a buon prezzo, per chi compra e chi vende, e silenziosi portici d’ombra. Un’ombra verde e viola, fresca di glicine, e pietosa. Come l’ombra che avvolgeva nel gioco d’infanzia quando, giunti lontano da chi contava col viso coperto, ci sorprendeva il silenzio, la pace ancora inquieta per non essere visti, l’attesa, puntuta alle orecchie e alle tempie, per non essere scorti e tanati mentre in corsa trionfale si tornava alla partenza.

Allora tutto il regno ci apparteneva, il più ricco patrimonio, il più favoloso dei premi. Un pezzo di vetro sagomato dalla pioggia e dal sole in forma di corona.
Questa vita è una storia, questa vita è la storia di storie, il libro dei libri, il cammino spericolato, il viaggio fino all’altro capo del mondo. Da lì arrivano bagliori, il giorno è già sveglio, i piedi calpestano il pavimento e la terra.
Già ci si separa per ricongiungersi a sera.
Là forse l’uomo ha già trovato le chiavi, le ha fatte girare nella toppa e la porta si è aperta.

Lì non si combatte. I bagliori erano fuochi di festa.
Là non si soffre. Le grida erano d’esultanza per l’avvento del sole.
Lì non si uccide, per una minestra o per tutto il montepremi.
Non era sangue che tingeva la strada ma solo un frutto spontaneo che si concedeva alla mano stringente dell’uomo assetato.

Autore: Salvatore Enrico Anselmi
Cover artwork: Timwnas

Ho avuto in sorte